Se n'è andato sabato mattina, senza un saluto o una parola, velocemente, quasi a non voler disturbare troppo, com'era tipico del suo carattere...
...24 luglio 1996, sono quasi le 18.00, fa un caldo asfissiante nelle strade del centro di Roma. Entro per la prima volta nel palazzo che sarebbe diventato il mio nuovo ufficio per i successivi 13 anni: c'è l'incontro con i nuovi colleghi. Ne manca uno, mi dicono che è stato trattenuto da un impegno familiare ma ci avrebbe raggiunti più tardi. Dopo circa 1 ora entra nella stanza un signore dall'aria distinta, vestito elegantemente, di un'eleganza "antica", non modaiola, che fa venire in mente gli anni'60, forse anche per quel vezzo di portare a tracolla un inutile borsello. Cammina rapido, quasi scivolando per non disturbare la riunione. E' lui, è Fulvio, la persona con cui avrei lavorato a diretto contatto per 6 anni. Sembra un uomo chiuso, impenetrabile, ma è un'impressione: dopo pochi giorni avrei scoperto la sua profondità d'animo, nascosta sotto una scorza nera da duro. Ricordo ad esempio come ogni anno a Pasqua amasse regalare a due colleghe non vedenti, assunte tanti anni prima insieme a lui, un gigantesco uovo di pasqua. Un gesto non di superbia ma di delicatezza estrema, di dolcezza, forse di scuse per tutte le parole che avrebbe voluto dire e che non gli uscivano.
Ricordo che un giorno entrai nella sua stanza, perennemente affumicata dal fumo delle immancabili "Muratti" per presentargli una giovane collaboratrice neo assunta: "Fulvio, ti presento la tua nuova assistente". E lui, senza alzare gli occhi dalle carte che leggeva "E che le devo dire?". "Magari potresti dirle benvenuta, no?" Silenzio. Eppure, qualche mese dopo, interruppe una riunione del consiglio di amministrazione per andare ad assistere alla sessione di laurea di questa giovane collaboratrice.
Fulvio, uomo dell'essere più che dell'apparire, se n'è andato sabato mattina, senza un saluto o una parola, velocemente, quasi a non voler disturbare troppo, com'era tipico del suo carattere...
Orgoglioso della sua resistenza fisica temprata in ore e ore di nuoto in piscina, amava nuotare nel mare di Gaeta e quando, raramente, ne parlava, gli si illuminavano gli occhi. Non era un patito di sport, si limitava a seguire le partite del Napoli, squadra della sua città natale, anche se poi, la mattina del lunedì, sfuggiva bruscamente a qualunque riferimento i colleghi gli proponessero sulle vicende calcistiche della domenica.
Uomo silenzioso, ma anche capace di discorsi lunghi, lunghissimi e profondi, a volte, dolorosi, come quello di una notte di parecchi anni fa. Stavamo fuori Roma per un corso di formazione, ero rimasto da solo con lui nella sala dell'hotel che ci ospitava. Lui era al pianoforte e lentamente ricostruiva melodie ricordo di lontani studi musicali. All'improvviso si interruppe e mi chiese a bruciapelo "lo sai cosa si prova quando qualcuno ti suona al citofono la mattina alle 6?". Non capii subito a cosa si riferiva. "Allora, lo sai che si prova quando qualcuno ti suona al citofono alle 6 di mattina?" incalzò. "Ti senti il mondo crollare addosso, ti senti solo, senza forze e pensi che, pur innocente, stavolta non ce la farai ad uscire fuori dal guaio in cui sei precipitato". Iniziò così a raccontarmi per ore il suo tormento più profondo, il terrore, vissuto anni prima, di essere arrestato, pur assolutamente innocente, nell'ambito di un'indagine giudiziaria che aveva inciso profondamente nel suo ambiente di lavoro, portando anche in prigione colleghi e capi. Era stato il momento, come lui diceva, del si salvi chi può, del tutti contro tutti, ognuno pronto anche alla delazione pur di uscire fuori dall'indagine con il danno minimo. Mi raccontò tutta la vicenda con uno stile particolare, senza mai giudicare nessuno, mettendo in fila fatti, persone, situazioni, senza nemmeno tentare di costruire per se stesso un ruolo di angelo salvatore, ma cercando la verità, asciutta, secca, anche brutta a volte. E capii quanto quella vicenda lo avesse inciso nel più profondo dell'animo, trasformando un brillante dirigente napoletano, sempre pronto a cogliere il lato positivo delle cose, in un personaggio duro, chiuso, sospettoso, solo. E nonostante la paura lui, imperterrito, aveva continuato a lavorare da solo, a "mandare avanti la baracca" (come disse) senza poteri formali ma potendo contare solo sul suo carisma, sul rispetto di cui godeva da parte del personale e sulla sua profonda competenza professionale. Fortuna per lui, quella volta il campanello era stato suonato da un altro inquilino che aveva dimenticato le chiavi, ma il racconto mi fu utile per capire quale fossero state le sue emozioni in quei lontani anni delle indagini giudiziarie. A indagini concluse il presidente della società, nel corso di un evento, lo ringraziò pubblicamente per il faticoso lavoro svolto negli anni delle indagini, consentendo alla società di sopravvivere. Fulvio mi aveva chiesto tante volte la copia di una foto che gli avevo scattato in quell'occasione, ma non sono stato capace di trovare più quel negativo.
Ma il mio ricordo di Fulvio non può finire senza almeno un riferimento ad una vicenda molto più recente: l'arrivo del nipote Filippo. Per lui Fulvio era letteralmente impazzito di gioia. Aveva da poco lasciato l'attività professionale, e non era contento. Stava scivolando in una depressione fisica e psicologica. Poi il miracolo, l'arrivo di Filippo. Fulvio, il burbero avvocato, l'uomo che non alzava gli occhi dalle carte di lavoro, portava nel portafoglio le foto del nipotino, lo accudiva quotidianamente, rimbrottava padre e madre per come lo trattavano. Era diventato, per noi ex colleghi che lo continuavamo a frequentare, motivo di scherzo questo suo continuo riferimento a Filippo, e addirittura, per il suo ultimo compleanno, avevamo pensato di regalargli un vestitino per il "pupo".
Lo avevo visto qualche settimana fa. Ci eravamo lasciati con la promessa di vederci "prima di Pasqua", invece ci siamo incontrati oggi, per l'ultima volta, e non ci siamo potuti vedere.
Ciao Fulvio. Grazie
...24 luglio 1996, sono quasi le 18.00, fa un caldo asfissiante nelle strade del centro di Roma. Entro per la prima volta nel palazzo che sarebbe diventato il mio nuovo ufficio per i successivi 13 anni: c'è l'incontro con i nuovi colleghi. Ne manca uno, mi dicono che è stato trattenuto da un impegno familiare ma ci avrebbe raggiunti più tardi. Dopo circa 1 ora entra nella stanza un signore dall'aria distinta, vestito elegantemente, di un'eleganza "antica", non modaiola, che fa venire in mente gli anni'60, forse anche per quel vezzo di portare a tracolla un inutile borsello. Cammina rapido, quasi scivolando per non disturbare la riunione. E' lui, è Fulvio, la persona con cui avrei lavorato a diretto contatto per 6 anni. Sembra un uomo chiuso, impenetrabile, ma è un'impressione: dopo pochi giorni avrei scoperto la sua profondità d'animo, nascosta sotto una scorza nera da duro. Ricordo ad esempio come ogni anno a Pasqua amasse regalare a due colleghe non vedenti, assunte tanti anni prima insieme a lui, un gigantesco uovo di pasqua. Un gesto non di superbia ma di delicatezza estrema, di dolcezza, forse di scuse per tutte le parole che avrebbe voluto dire e che non gli uscivano.
Ricordo che un giorno entrai nella sua stanza, perennemente affumicata dal fumo delle immancabili "Muratti" per presentargli una giovane collaboratrice neo assunta: "Fulvio, ti presento la tua nuova assistente". E lui, senza alzare gli occhi dalle carte che leggeva "E che le devo dire?". "Magari potresti dirle benvenuta, no?" Silenzio. Eppure, qualche mese dopo, interruppe una riunione del consiglio di amministrazione per andare ad assistere alla sessione di laurea di questa giovane collaboratrice.
Fulvio, uomo dell'essere più che dell'apparire, se n'è andato sabato mattina, senza un saluto o una parola, velocemente, quasi a non voler disturbare troppo, com'era tipico del suo carattere...
Orgoglioso della sua resistenza fisica temprata in ore e ore di nuoto in piscina, amava nuotare nel mare di Gaeta e quando, raramente, ne parlava, gli si illuminavano gli occhi. Non era un patito di sport, si limitava a seguire le partite del Napoli, squadra della sua città natale, anche se poi, la mattina del lunedì, sfuggiva bruscamente a qualunque riferimento i colleghi gli proponessero sulle vicende calcistiche della domenica.
Uomo silenzioso, ma anche capace di discorsi lunghi, lunghissimi e profondi, a volte, dolorosi, come quello di una notte di parecchi anni fa. Stavamo fuori Roma per un corso di formazione, ero rimasto da solo con lui nella sala dell'hotel che ci ospitava. Lui era al pianoforte e lentamente ricostruiva melodie ricordo di lontani studi musicali. All'improvviso si interruppe e mi chiese a bruciapelo "lo sai cosa si prova quando qualcuno ti suona al citofono la mattina alle 6?". Non capii subito a cosa si riferiva. "Allora, lo sai che si prova quando qualcuno ti suona al citofono alle 6 di mattina?" incalzò. "Ti senti il mondo crollare addosso, ti senti solo, senza forze e pensi che, pur innocente, stavolta non ce la farai ad uscire fuori dal guaio in cui sei precipitato". Iniziò così a raccontarmi per ore il suo tormento più profondo, il terrore, vissuto anni prima, di essere arrestato, pur assolutamente innocente, nell'ambito di un'indagine giudiziaria che aveva inciso profondamente nel suo ambiente di lavoro, portando anche in prigione colleghi e capi. Era stato il momento, come lui diceva, del si salvi chi può, del tutti contro tutti, ognuno pronto anche alla delazione pur di uscire fuori dall'indagine con il danno minimo. Mi raccontò tutta la vicenda con uno stile particolare, senza mai giudicare nessuno, mettendo in fila fatti, persone, situazioni, senza nemmeno tentare di costruire per se stesso un ruolo di angelo salvatore, ma cercando la verità, asciutta, secca, anche brutta a volte. E capii quanto quella vicenda lo avesse inciso nel più profondo dell'animo, trasformando un brillante dirigente napoletano, sempre pronto a cogliere il lato positivo delle cose, in un personaggio duro, chiuso, sospettoso, solo. E nonostante la paura lui, imperterrito, aveva continuato a lavorare da solo, a "mandare avanti la baracca" (come disse) senza poteri formali ma potendo contare solo sul suo carisma, sul rispetto di cui godeva da parte del personale e sulla sua profonda competenza professionale. Fortuna per lui, quella volta il campanello era stato suonato da un altro inquilino che aveva dimenticato le chiavi, ma il racconto mi fu utile per capire quale fossero state le sue emozioni in quei lontani anni delle indagini giudiziarie. A indagini concluse il presidente della società, nel corso di un evento, lo ringraziò pubblicamente per il faticoso lavoro svolto negli anni delle indagini, consentendo alla società di sopravvivere. Fulvio mi aveva chiesto tante volte la copia di una foto che gli avevo scattato in quell'occasione, ma non sono stato capace di trovare più quel negativo.
Ma il mio ricordo di Fulvio non può finire senza almeno un riferimento ad una vicenda molto più recente: l'arrivo del nipote Filippo. Per lui Fulvio era letteralmente impazzito di gioia. Aveva da poco lasciato l'attività professionale, e non era contento. Stava scivolando in una depressione fisica e psicologica. Poi il miracolo, l'arrivo di Filippo. Fulvio, il burbero avvocato, l'uomo che non alzava gli occhi dalle carte di lavoro, portava nel portafoglio le foto del nipotino, lo accudiva quotidianamente, rimbrottava padre e madre per come lo trattavano. Era diventato, per noi ex colleghi che lo continuavamo a frequentare, motivo di scherzo questo suo continuo riferimento a Filippo, e addirittura, per il suo ultimo compleanno, avevamo pensato di regalargli un vestitino per il "pupo".
Lo avevo visto qualche settimana fa. Ci eravamo lasciati con la promessa di vederci "prima di Pasqua", invece ci siamo incontrati oggi, per l'ultima volta, e non ci siamo potuti vedere.
Ciao Fulvio. Grazie
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