Campo di rugby, siamo nella provincia campana, lontano dai clamori delle grandi città. Stanno giocando due squadre di rugby under 14: una formazione campana contro la squadra di un villaggio del centro Inghilterra vicino Leeds. Un ragazzino inglese, colpito duro al fianco, esce. Dopo qualche minuto il dolore del ragazzo si acuisce, si tocca la parte sinistra dell’addome. Arriva il medico. Lo visita e inizia a parlottare con uno degli organizzatori campani del torneo che sta assistendo il giocatore infortunato.
Descrivo meglio la situazione: a bordo campo bivacca un capannello di persone così composto: il ragazzino inglese dolorante e stordito dalla confusione, sdraiato in terra; intorno a lui il medico, l’organizzatore, io (che non c’entro niente ma, al solito, ci sono) e l’accompagnatore inglese. Precisazione: i due campani (medico e organizzatore) non parlano inglese. L’inglese parla solo il dialetto di Leeds, e nemmeno benissimo. Io, senza disprezzare, sono l’unico poliglotta presente.
Azione. L’organizzatore, ascoltate le parole sussurrate dal medico, si rivolge al signore inglese: “Rice ‘o duttore c’avisseve accumpagnà ‘o uaglione ‘o ospitale pecché tene parura c’à priso nu curpo rint ‘a milza…” qui si interrompe, si rivolge a me e chiede, con il classico gesto della mano alzata e abbassata con le punte delle dita raggruppate: “ma comme se rice milza ‘n’ingles?”
Trattengo a stento il riso (immagino che il signore campano ritenga che l’inglese abbia capito tutto, tranne la parola milza) e rispondo flebilmente “spleen”. All’inglese si accende una luce negli occhi, appannati dalla troppe birre già consumate (non è ancora mezzogiorno) o dal linguaggio incomprensibile che lo circonda, e mi chiede (credo) “t’iu spicc inglisc”? Arroto il mio migliore “queen accent” e rispondo “iesss”. Non immagino il tunnel buio nel quale mi sto infilando: inizio un arduo compito di interprete sanitario simultaneo, dal campano al cokney (e viceversa, che è ancora peggio), compito del quale però gli inglesi si approfittano. Tanto che quando un inglese con le mani già sulla patta mi chiede “sorry, toilette?” lasciando intendere che se non gli rispondo è pronto ad aprire il “rubinetto” lì per lì, esplodo con un “ma nun ‘o vvire c’o cess è loc abbascio??!”
Epilogo: il ragazzo inglese viene portato all’ospedale con l’ambulanza. Gli viene diagnosticata la frattura di due costole. Ma non credo che lui l’abbia mai saputo perché in ospedale l’hanno lasciato da solo e nessuno lì sapeva dire “ribs” (costole in inglese).
Epilogone: il padre del ragazzo rimane al campo a fare le foto, “tanto non può fare nulla per il figlio”.
Epiloghissimo: il figlio dolorante è stato posteggiato sugli spalti dello stadio con una borsa di ghiaccio sulle costole. Non lo hanno nemmeno fatto cambiare: indossa scarpini e divisa di gioco e sembra una moderna raffigurazione di Giobbe provato dalle sofferenze. Ora capisco tutta la storia del royal wedding.
Descrivo meglio la situazione: a bordo campo bivacca un capannello di persone così composto: il ragazzino inglese dolorante e stordito dalla confusione, sdraiato in terra; intorno a lui il medico, l’organizzatore, io (che non c’entro niente ma, al solito, ci sono) e l’accompagnatore inglese. Precisazione: i due campani (medico e organizzatore) non parlano inglese. L’inglese parla solo il dialetto di Leeds, e nemmeno benissimo. Io, senza disprezzare, sono l’unico poliglotta presente.
Azione. L’organizzatore, ascoltate le parole sussurrate dal medico, si rivolge al signore inglese: “Rice ‘o duttore c’avisseve accumpagnà ‘o uaglione ‘o ospitale pecché tene parura c’à priso nu curpo rint ‘a milza…” qui si interrompe, si rivolge a me e chiede, con il classico gesto della mano alzata e abbassata con le punte delle dita raggruppate: “ma comme se rice milza ‘n’ingles?”
Trattengo a stento il riso (immagino che il signore campano ritenga che l’inglese abbia capito tutto, tranne la parola milza) e rispondo flebilmente “spleen”. All’inglese si accende una luce negli occhi, appannati dalla troppe birre già consumate (non è ancora mezzogiorno) o dal linguaggio incomprensibile che lo circonda, e mi chiede (credo) “t’iu spicc inglisc”? Arroto il mio migliore “queen accent” e rispondo “iesss”. Non immagino il tunnel buio nel quale mi sto infilando: inizio un arduo compito di interprete sanitario simultaneo, dal campano al cokney (e viceversa, che è ancora peggio), compito del quale però gli inglesi si approfittano. Tanto che quando un inglese con le mani già sulla patta mi chiede “sorry, toilette?” lasciando intendere che se non gli rispondo è pronto ad aprire il “rubinetto” lì per lì, esplodo con un “ma nun ‘o vvire c’o cess è loc abbascio??!”
Epilogo: il ragazzo inglese viene portato all’ospedale con l’ambulanza. Gli viene diagnosticata la frattura di due costole. Ma non credo che lui l’abbia mai saputo perché in ospedale l’hanno lasciato da solo e nessuno lì sapeva dire “ribs” (costole in inglese).
Epilogone: il padre del ragazzo rimane al campo a fare le foto, “tanto non può fare nulla per il figlio”.
Epiloghissimo: il figlio dolorante è stato posteggiato sugli spalti dello stadio con una borsa di ghiaccio sulle costole. Non lo hanno nemmeno fatto cambiare: indossa scarpini e divisa di gioco e sembra una moderna raffigurazione di Giobbe provato dalle sofferenze. Ora capisco tutta la storia del royal wedding.
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marco
MAP