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Prigioni


Al 31.12.2008 i detenuti in Italia erano poco più di 58.000, ripartiti in 206 istituti. La maggioranza schiacciante è composta da uomini (95,5%). Il 46% degli ingressi avvenuti nel 2008 negli Istituti di pena è composta da stranieri (1).
Il fenomeno è quindi importante ed ha riflessi su molte delle riflessioni sociali e politiche che si sviluppano in Italia.
Eppure il problema è come se non esistesse. Molti italiani vedono nel carcere un "buco nero" dove le persone scompargono e, purtroppo, alle volte riemergono. La logica non è tanto quella della redenzione quanto quella della vendetta. E quindi chi è in carcere deve soffrire. E basta.
Poco importa che esistano regolamenti, norme, leggi. Chi sta "dentro" deve soffrire. Se non c'è una famiglia alle spalle ( e spesso non c'è, se l'arrestato è straniero) tutto in carcere diventa difficile. E non parliamo della possibilità di lavorare: solo il 24,4% dei detenuti lavora. Quello che i dati non dicono è che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di lavori legati alla vita degli istituti (pulizie, facchinaggio, assistenza al vitto) e non di lavori "professionalizzanti" (falegnameria, tipografia, carrozzeria, fabbro) che consentirebbero una maggior possibilità di inserimento una volta fuori.
E così può capitare (e capita, come mi è stato riportato da persone che svolgono attività di volontariato nel carcere romano di Regina Coeli) che un detenuto resti anche due settimane senza possibilità di cambiare gli indumenti indossati il giorno dell'arresto, compresa la biancheria intima.
E una mutanda diventa la linea di confine fra la civilità e la barbarie.

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(1) i dati sono tratti da www.giustizia.it

Commenti

Anonimo ha detto…
Condivido. Condivido completamente. Per lavoro ho avuto occasione di frequentare il carcere di 2 Palazzi di Padova, già entrare dalla guardiola mette un certo senso di disagio, vedere poi i detenuti che si dedicano alle manutenzioni ordinarie dell'istituto e che hanno un rapporto di totale sudditanza con i "liberi" dà molto da pensare... Ho trovato assai educativa l'iniziativa di un gruppo di volontari di Padova che interagisce con le scuole superiori della città. Gli studenti accedono alla redazione del giornale interno al carcere e hanno modo di confrontarsi direttamente con i detenuti. Grande iniziativa.

i.
paolo ha detto…
Già, la mia "fonte" mi ha descritto situazioni molto differenziate sul territorio. Ad esempio, il carcere di Terni è un modello di applicazione del principio della "rieducazione". I detenuti conoscono le regole interne perché alla registrazione ricevono un libretto MULTILINGUE contenente una sintesi del Regolamento. E' possibile svolgere attività lavorative professionali nei campi dell'agricoltura e dell'artigianato, e così via.
Ma in termini numerici rappresenta un infinitesimo. A Regina Coeli, dove la maggiornaza dei detenuti appartiene alle categorie "in attesa di giudizio" o "pene brevi" (max due anni), la situazione è drammatica: mancano i presidi minimi che consentano un mantenimento della dignità personale. Come ho scritto, il detenuto senza un supporto esterno non può cambiarsi la biancheria, non ha lo spazzolino da denti o il sapone o l'asciugamano. E tutto questo induce una sorta di rancore rabbioso che poi esploderà al momento del ritorno in libertà del detenuto.
Oh, si badi bene, le carenze di cui parlo non richiedono interventi legislativi per essere sanate: no, no! Io parlo di diritti del detenuto già sanciti dalla normativa vignete. Solo che, per trascuratezza, intoppi burocratici, penuria (o incapacità di gestione) dei fondi, i presìdi minimi essenziali non vengono garantiti. E questo conferma la nostra sostanziale "inciviltà" come Paese.

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